Mi hanno chiesto un parere sul patentino per andare in montagna. Ho dovuto contare diverse decine di respiri prima di declinare l’invito. Poi, ho sentito la necessità di riflettere prima di rispondere e rispondermi. Lo faccio, quindi, ora con una similitudine che spero venga compresa nella sua autenticità. Un soggetto impara ad andare in macchina perché ha la patente nel portafoglio oppure perché ha imparato e mutuato da ragazzo dai gesti responsabili del padre e, magari, anche da quelli di qualche fratello maggiore, perché ha assunto informazioni nel tempo legate alla conoscenza delle strade e alla relativa segnaletica, perché ha maturato nel tempo una consapevolezza alla prevenzione degli incidenti, perché la cultura dell’auto e della mobilità piano piano lo ha fatto matura come autista?
Ecco, il patentino per andare in montagna, oltre ad essere la negazione della libertà che io voglio ancora trovare quando frequento l’ambiente montano (almeno là…), pur nel rispetto degli altri e dei potenziali soccorritori (lo sono dal 1994, anche con ruoli di una certa responsabilità e non ho mai rinunciato a parlare e praticare l’informazione e la prevenzione rivolta alla contrazione degli incidenti e degli infortuni…), è la ricerca esasperata di ciò che per natura non si lascia disciplinare (è un po’ come andare al mare), ma che ugualmente impone regole severe da seguire. Queste regole, anzi principi per essere ricorretti, non possono che essere quella cultura dell’automobilista a cui prima accennavo che va traslata anche per la montagna: cultura della montagna che, per scontata logica, non si acquisisce con patenti, ma con il desiderio di imparare con umiltà e fatica di e confrontarsi in modo onesto con l’ambiente.
Non entro neppure nel merito dell’improponibilità organizzativa e gestionale (es. una stima di 5/7 milioni di persone appassionate dei monti, dei quali almeno 1,5/2 milioni di soggetti che, con continuità, arrampicano, fanno ferrate, effettuano gite di scialpinismo ed escursioni che dovrebbero essere formate da qualche centinaio di professionisti?); degli aspetti legati al controllo, a quelli di carattere ispettivo e, eventualmente, sanzionatorio; delle problematiche di carattere assicurativo che ne discendono; delle criticità evidenti legate ai turisti di provenienza straniera… elementi, questi, che sono già di per sé, oltre a quanto già detto, un limite straordinario per rendere anche lontanamente perseguibile l’idea.
Mi piace allora pensare che quella del patentino per andare in montagna sia stata un’intelligente provocazione o, al massimo, una boutade estiva per poter parlare seriamente di quella che, non mi stancherò mai di chiamare con il suo nome corretto, si chiama, diversamente, cultura della montagna e questa, come detto, non passa affatto per l’ottenimento di alcuna patente poiché è sostanzialmente altro per nostra fortuna. Con questa canicola, varrebbe la pena concentrarsi su questo, senza disperdere inutili energie.
Seguici anche su Instagram:
https://www.instagram.com/amicodelpopolo.it/

1 commento
Giuseppe
Su un quotidiano locale oggi sostenevano che per evitare l’overtourism basterebbe agevolare nelle vallate dolomitiche la costruzione di ferrovie, perché -a detta di questi studiosi dei flussi turistici- il mezzo pubblico, a differenza dell’automobile, scoraggia la competizione di andare a visitare in massa e con modalità “mordi e fuggi” mete ambite.