Il Vangelo di oggi ci dice che pregare non basta per salvarsi, e che la salvezza non è poi così semplice da ottenere, anzi: è come tentare di entrare in una porta stretta, lasciata appena socchiusa da un padrone di casa che da un momento all’altro la può chiudere, e una volta chiusa, chi è dentro è dentro, e chi è fuori è fuori. E ciò che fa ancor più impressione, è notare chi sono quelli che rimangono fuori, e chi sono invece quelli che stanno all’interno. Dentro, ci stanno «Abramo, Isacco, Giacobbe e tutti i profeti», ovvero coloro che sono stati amici di Dio su questa terra non per le tante parole dette o le tante preghiere fatte, ma perché hanno compiuto la volontà di Dio, sfidando ogni avversità e ogni tipo di prova messe sul loro cammino non solo dai nemici del Signore, ma a volte da Dio stesso. Credendo e sperando contro ogni speranza, sono entrati a far parte del Regno di Dio. Seduti alla mensa del Regno, insieme con loro ne arriveranno altri, «da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno», ovvero – secondo un’immagine biblica molto presente nei profeti – da tutte quelle nazioni che non appartengono alla fede d’Israele, eppure sono in grado di ottenere anch’esse la salvezza a scapito di coloro che, pur appartenendo al popolo della Promessa, ne restano, invece, esclusi.
Chi sono, allora, questi “esclusi” dal Regno perché incapaci di entrare per la porta socchiusa? Gesù ci parla di loro, ma in realtà parla “a” loro, perché si rivolge direttamente ai suoi interlocutori, rispondendo a un tale che voleva sapere il numero di coloro che si sarebbero salvati. Il Maestro è in deciso viaggio verso Gerusalemme, ma al termine di questo capitolo, scaltramente consigliato dai farisei, dovrà attendere un attimo perché – a detta loro –ricercato da Erode che lo vuole mettere a morte. In realtà, come sappiamo, sono i farisei e le autorità religiose che cercano di metterlo a morte per le sue parole e per i gesti da lui compiuti: poco prima di questi fatti, nello stesso capitolo 13, aveva raccontato la parabola del fico sterile con una chiara allusione alla sterilità spirituale del popolo eletto, e aveva guarito una donna nella sinagoga in giorno di sabato.
Gesù non fugge dal suo destino, ma sa di avere ancora molto da insegnare a un popolo che, guidato e formato dai suoi capi, è convinto di essere in possesso della salvezza per il solo fatto di essere il popolo eletto, di avere ricevuto da Dio la Legge, i comandamenti, la sinagoga, il tempio con tutti i riti annessi e connessi. La salvezza, quindi, era una cosa “per pochi eletti”, ovvero i depositari di queste promesse di Jahvè.
Gesù sembra assentire ai suoi interlocutori: sì, la salvezza non è per tutti, è una cosa difficile da ottenere, non però attraverso l’appartenenza al popolo eletto, e nemmeno attraverso preghiera e culto. Perlomeno, non solo attraverso questo, perché questo non basta. Non basta pregare e supplicare il Signore dicendo «Signore, aprici!»; non basta nemmeno ribadire la propria appartenenza al popolo eletto e la propria presunta amicizia con Dio, rivendicando di aver mangiato e bevuto con lui e aver ascoltato i suoi sermoni in piazza. Perché il Signore avrà la risposta pronta, di fronte a queste suppliche: «Non so di dove siete. Allontanatevi da me».
E perché mai il Signore li caccia? Perché li esclude dalla salvezza? Perché chiude loro in faccia la porta del Regno? Lo spiega in maniera lapidaria: «Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia». Quella che per loro era motivo di salvezza e di giustizia, ossia l’appartenenza al popolo eletto, per Gesù non significa automaticamente essere giusti. Gesù è venuto a portare una legge che libera, la legge dell’amore e della giustizia: e di fronte all’amore e alle opere di giustizia non ci sono norme, leggi, istituzioni, culti e preghiere che tengano.
È l’amore che ci apre la porta del Regno di Dio: rivendicare la nostra amicizia con Dio e la nostra presunta pretesa di salvezza per il solo fatto di pregare, andare a messa, andare in chiesa e compiere con i precetti della nostra fede cristiana, non è sufficiente, se non sappiamo essere operatori di giustizia.
Allora, pregare non serve? Allora, non è vero, e non valido, affermare che “chi prega si salva e chi non prega si danna”? Certo che è vero e che è valido: ma non basta. Alla preghiera devono corrispondere opere di giustizia e di amore. Forza, quindi: evitiamo di rimanere chiusi fuori!
Giulio Antoniol
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2 commenti
Giuseppe
Sarei un po’ più prudente nell’applicare alla Chiesa e ai cristiani le parole che Gesù rivolge ad alcuni membri del popolo dell’antica alleanza suoi contemporanei, che lo rifiutavano e osteggiavano. La salvezza operata da Gesù è offerta a tutti, tra i mezzi per raggiungerla c’è sicuramente la messa, i sacramenti, la preghiera unitamente alla giustizia e alla carità… Ma per i discepoli di Gesù la pratica di queste realtà indica l’unione al loro Maestro, il ringraziamento, la lode per la sua opera non un’azione semplicemente umana. Si tratta proprio di un modo per riconoscere la forza di Dio e cantare le meraviglie che Lui realizza.
Rita S.
Buonasera. Io penso che don Giulio, nel commentare questo brano del Vangelo, intenda provocarci affinché ci interroghiamo sul modo in cui viviamo e pratichiamo la nostra fede, mettendoci in guardia da un certo legalismo (metto in pratica i comandi del Signore e quindi mi sento a posto), ed anche dall’abitudine, terribile nemica di ogni tipo di amore, che rende tutto opaco, dejà vue. Il Vangelo di Luca poi sappiamo che è la manifestazione della Misericordia, la cui consapevolezza ci rende liberi. Buona domenica.