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venerdì 5 Dicembre 2025,

Suicidi, a Belluno il doppio del Veneto: dati e cause

L'intervista ad Aldo Gatto, direttore del Dipartimento di Salute Mentale e dell’Unità di Psichiatria di Belluno

Il tasso di mortalità per suicidio in provincia di Belluno è il doppio rispetto alla media regionale. Non è purtroppo una novità per il nostro territorio, storicamente segnato da questo fenomeno, ma è un dato da cui partire per una riflessione necessaria. Alla prevenzione del gesto, tanto tragico quanto troppo spesso nascosto per vergogna e difficoltà di comprensione, è stata dedicata lo scorso mercoledì 10 settembre la Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, in occasione della quale l’Ulss Dolomiti ha organizzato una mattinata di convegno con contributi da vari settori.

Abbiamo parlato del tema con il dottor Aldo Gatto, direttore del Dipartimento di Salute Mentale e dell’Unità di Psichiatria di Belluno. Qui qualche domanda dell’intervista, mentre l’approfondimento completo è disponibile nel numero 36 dell’Amico del Popolo “di carta”, che porta la data di giovedì 11 settembre, ed è in distribuzione (su abbonamentoin edizione digitale e in edicola).

In provincia di Belluno la mortalità per suicidio è da sempre alta. Cosa ci dicono i dati?
«Storicamente la mortalità per suicidio nel nostro territorio raggiunge tassi quasi doppi rispetto alla media regionale, che si attesta leggermente al di sotto del 7% (ogni 100 mila abitanti). Belluno ha anche una delle medie più alte a livello italiano, con numeri analoghi ad altri territori come la Sardegna e Valle d’Aosta. A livello mondiale, invece, l’Europa è il continente con i tassi più alti, ma essi sono ‘‘alterati’’ da alcune realtà con percentuali altissime come la Groenlandia (appartenente alla Danimarca e per questo conteggiata come europea, ndr)».

E per quanto riguarda le fasce d’età e il genere?
«Si osserva una marcata prevalenza del sesso maschile, con un tasso di mortalità per suicidio quasi quattro volte superiore a quello femminile.
Per quanto riguarda l’età, invece, circa il 50% di suicidi si attesta nella fascia che va dai 45 ai 69 anni, e in particolare tra i 50 e 59».

Cosa rende la provincia di Belluno così ‘‘vulnerabile’’?
«Il primo fattore è geografico e riguarda la latitudine. I tassi di mortalità per suicidio, infatti, aumentano progressivamente man mano che ci si sposta verso nord (nel Nord Europa, ad esempio, pesano sul tasso di suicidi e di patologie depressive le poche ore di luce). Lo stesso andamento si osserva anche in Italia, fatta eccezione per la Sardegna, che però condivide alcune caratteristiche con le nostre aree montane.
Il secondo fattore di rischio è legato proprio alla montuosità del territorio: l’isolamento. Un aspetto che incide in particolare su alcune zone della provincia, penalizzate dalla difficile accessibilità ai servizi e alla rete associativa. Nel Bellunese incide anche la comorbidità con la dipendenza da sostanze, come l’alcol. Va ricordato, poi, che il fenomeno è di per sé multifattoriale, nel senso rappresenta l’esito di una serie di cause: tra queste ci sono anche la perdita della casa o di un lavoro con le conseguenti difficoltà economiche o l’assenza di una famiglia, uno dei fattori protettivi nei quadri depressivi».

Ci sono fasce d’età o fasi della vita particolarmente ‘‘sensibili’’ da questo punto di vista?
«Sì, sappiamo che ci sono fasi evolutive della vita più delicate di altre, come l’adolescenza e la senescenza. Due momenti distanti nel tempo, ma per molti versi simili: entrambi rappresentano fasi di transizione, segnate dal passaggio da una condizione esistenziale a un’altra e dalla perdita di uno status. Nell’adolescenza viene meno il ruolo di figlio o di bambino; nella pensione, quello di lavoratore, che per decenni ha dato senso all’esistenza; nell’anziano, invece, viene meno l’autonomia, con la sofferenza legata alla perdita di autonomia e prestazioni».

Parlando di prevenzione, come si porta avanti e quali sono i campanelli d’allarme?
«Il vero tema su cui dobbiamo insistere per la prevenzione è la difficoltà del soggetto che soffre nel formulare una richiesta di aiuto.
Sappiamo, infatti, che una percentuale rilevante delle persone che arrivano al gesto non ha mai contattato i servizi sanitari e, di conseguenza, non ha neppure chiesto aiuto al medico di base, la prima persona a cui rivolgersi quando si sta male, non solo fisicamente. Inoltre, questi soggetti spesso non manifestano il loro disagio neppure alla rete sociale di riferimento. Il lavoro da svolgere, quindi, è sensibilizzare alla capacità di esprimere il proprio disagio, verbalizzandolo in modo che possa essere raccolto da qualcuno. Campanelli d’allarme? Bisogna prestare attenzione soprattutto allo scarso utilizzo dell’interazione sociale diretta».

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5 commenti

  • Forse anche il clima più freddo che altrove tiene le persone rinchiuse in casa in solitudine. Qui da noi la vita è più dura e ci sono meno occasioni per stare in compagnie sane e ricche di valori morali. C’è la cultura che vuole il maschio più forte e quindi quando questo soffre una fragilità è più difficile che chieda aiuto. Nei nostri paesi c’è un forte tabù sul disagio psichico, tanto che agli ingressi i reparti ospedalieri destinati alla sua cura sono riconoscibili per una sigla ai più incomprensibile C.S.M. (e non si tratta del consiglio superiore della magistratura)…

    • ….ne so qualcosa in quanto a tabù per ciò che riguarda il disagio mentale o psichico,qualche anno in seguito alla morte del mio Papà,ho sofferto di una grave depressione,io non ho avuto alcun problema a dirlo ai miei parenti Bellunesi(abito a Milano) pensavo di ricevere un supporto morale e invece mi hanno emarginata ed isolata,il fatto che fossi in cura da una psichiatra per loro era una specie di vergogna…la vergogna sono loro….

  • Per le malattie mentali occorre supporto , informazione. I medici di base dovrebbero essere formati a cogliere i disagi mentali. Le famiglie con persone malate dovrebbero essere supportate dai Servizi.

  • Xchè viviamo solo x lavorare

  • Purtroppo il nostro territorio è vasto e mancano molti medici di base. In alcuni paesi ci sono addirittura solo guardie mediche che li sostituiscono. Come si può creare un rapporto di fiducia e continuità? Non siamo poi abituati a trattare le malattie mentali e il disagio psicologico, c’è tabù e discriminazione.

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