Tutte le puntate

Il periodo scolastico delle ‘medie’ non mi lascia ricordi significativi il che vuol dire che le emozioni sono state poche ovvero che i miei entusiasmi erano altrove. Certamente l’ambiente della ‘Ricci’ era nuovo e diverso in quanto fatto di molte guide rappresentate dai professori [che per quanto istruiti di solito sono meno bravi dei maestri – tanto che a chi convince e sa indirizzare si dà il titolo di Maestro e non lo si chiama professore].
Unica eccezione per Gabriella Dalla Vestra sia perché trattava le materie letterarie, mie preferite, sia perché era venuta ad abitare anche lei a Mussoi.
La vedevo quasi tutte le mattine per via della strada comune che si doveva fare per andare verso la stazione davanti alla quale sorgeva il complesso scolastico Medie-Licei assolutamente nuovo ma perfettamente in stile con le Gabelli e persino con ex-GIL (il progetto iniziale le prevedeva tutte anche se i molti anni passati nella realizzazione, avevano cancellato la memoria dei più).
Tornando alla Dalla Vestra ricordo che insegnava in modo efficace ed era sempre molto misurata. Quando si arrabbiava diventava più carina perché il viso le si arrossava un po’, ma non perdeva mai
le staffe. L’ho incrociata più volte nel corso degli ultimi … cinquant’anni (ocp!1) trovandola sempre immersa in cose culturali e non l’ho vista mai ridere di gusto. Chissà se nel retro maschera tratteneva il migliore! Ho chiesto a molte persone uscite dalle Ricci chi ricordassero con più piacere: la maggior parte ha risposto ‘la bidella Giovanna’ perché era sempre gioiosa. Vedi com’è! Passa solo ciò che si lascia amare.
A me, per esempio, era simpatico Don Tamis2 la cui massima espressione di severità, ogni volta che non ne poteva più del nostro chiacchiericcio crescente quando si lasciava assorbire dalle sue carte, era: «vi vedo eh, non ho mica gli occhi foderati di proziutto!». Sarà per la curiosa immagine gastronomica fatta all’ultima ora di lezione, sarà per quel leggero difetto nel pronunciare la esse ci, ma tutti ridevamo e tornava il silenzio. Altri tempi, allora, altri tempi.
Il mistero della stella cometa
La Parrocchia invece continuava alla grande e il campetto piccolo, quello dislocato tra l’Oratorio e il muro della via dei Cappuccini, il ‘mio’ per precisare, era sempre pieno di gioventù che dava calci al pallone; raggiungevo il campo arrivando direttamente da casa, per un buco nella siepe salvo fare il giro largo se mia madre mi concedeva un panino con la mortadella da prendere da Casol.
Il panificio si era allargato all’attività di negozio di alimentari e una spaccatina tiepida, col roseo salume dagli occhi verdi di pistacchio affettato fine, erano la mia passione. Soprattutto il pane e prima di tutto i suoi profumi. Fatalità, ho passato anni della mia vita in prossimità di forni da pane e so riconoscere a naso ogni più piccola fase della sua lavorazione: quasi ne mangio, a naso.
Per questo ero diventato amico della siora Edy e del Sior Dario che conducevano la nuova impresa ed erano vicini di casa. Avevano due figlie, Daniela ed Irene, più piccole di me di qualche anno il che, quando si è giovani, significa, di un’altra epoca. Ma il pane lo facevano buono e di molte forme anche se quasi tutto ‘comune’… e a buon mercato, alla faccia delle moderne boutique-panetteria che non sanno più cosa inventare per fartene passare la voglia.

Dario era anche fornitore ufficiale dei panini all’uvetta, scaldati ad arte, che dai primi di ottobre arrivavano quasi ogni sera a confortare i lavoratori nel gelo del tempio. Il presepio era diventato una opera mastodontica e occupava ormai l’intera navata centrale fino al limite della balaustra.
Un anno si arricchì di sole e luna che s’alternavano sullo sfondo offrendo chiarissime albe e rosseggianti tramonti agli stupefatti spettatori. Come figlio di uno dei capi, o meglio come aiuto lavoratore avevo accesso alle aree ‘tecnologiche’ e sapevo tutti i trucchi che non si dovevano dire a nessuno. A pensarla adesso ce n’era di competenza e fantasia in tutte quelle realizzazioni!
Il sistema delle luci variabili, ad esempio, era stato risolto col modulare la quantità della corrente tramite delle barre metalliche sagomate che penetravano in un mastello d’acqua salata essendo imperniate su una ruota3 che viaggiava lenta; un giro, un giorno! Un altro anno fu realizzato un tratto di mare ‘mosso’ nel vero senso poiché la tela azzurra veniva sollevata da una serie di forme poligonali infilate su assi movimentate con pulegge da un motorino; un altr’anno comparvero gli angeli in un anfratto di roccia realizzati con una ‘lanterna magica’ mossa dal calore della lampada che proiettava i disegni sulla pellicola opaca; ancora mio padre inventò l’aureola per il Gesù bambino in cui i raggi sembravano schizzare frazionati verso l’esterno grazie a una maschera a spirale fatta ruotare davanti alla lampada di proiezione: ora ve lo dico perché non c’è pericolo che qualcuno si impegni a copiare, magari! Ancora ho imparato il sorprendente effetto moltiplicatore degli specchi capaci di lasciar ammirare meravigliosi paesaggi lontanissimi, in realtà piccoli e nascosti a un palmo di naso! Conoscendo i vari lavoratori si intuiva anche la provenienza dei materiali usati tranne che nel caso del bottiglione della stella cometa, il cui contenuto liquido era a disposizione dei soli adulti e che, nonostante ogni sera fosse vuotato, la sera dopo si ritrovava pieno. Questo è ciò che ho sentito dire da molti, anche da Padre Beltrame che essendo un frate, non poteva ovviamente mentire.
Di sera noi piccoli non si usciva di casa, ma potevamo collaborare durante il giorno.
Oltre che alla raccolta del muschio, preparavamo la carta per fare le rocce ed era un grandissimo divertimento. Bisognava stendere per terra su tutta la superficie dell’Oratorio della carta da pacchi, quella bella spessa color marroncino. Poi, in 5 o 6, armati di grosso pennello, si passava sopra questo mare di carta spruzzando ognuno il proprio colore, come a benedire il terreno. Bisognava stare distanti uno dall’alto e tenere il colore abbastanza denso. C’erano nero, verde, blu, rosso e giallo e soprattutto il bianco. Quindi si raccoglieva la carta schizzata, che era ancor umida, e si appallottolava, lasciandola poi ad asciugare lentamente. Al momento opportuno, con la carpenteria di legno finita, si prendeva la carta, si stirava e si utilizzava per fare le rocce del paesaggio e la grotta, insomma per completare il presepio. Nessuno, tranne i lavoratori, era ammesso a vederlo prima della mezzanotte di Natale. La sera della vigilia, c’era tutta Mussoi ad aspettare quel momento, ma anche molta gente dal centro, tanto che lo spazio della cripta era assolutamente insufficiente e molti rimanevano fuori senza poter ascoltare la messa. Per fortuna il distillato di stella cometa, così era nota la miracolosa inesauribile grappa, assieme a qualche pignata de vin brulè, aiutavano nell’attesa, anche chi rimaneva appena fuori. Quanto avrei voluto mettere qui una foto del Presepio dei Frati! Chissà se Zanfron è ancora presente.

La Z di Z…anfron
Da noi la figura del fotoreporter porta solo il suo nome4 e come Zorro è arrivato sempre e ovunque a documentare i momenti utili nella storia della Provincia e anche molti di quelli inutili. Immagino il suo archivio in modo buzzattiano o come il deposito di zio Paperone dove al posto dei dollari navigano i negativi. In tanti anni, ogni volta che lo trovo mi dice di aver visto una mia bella foto che promette di darmi. Così, da giovani rampanti siamo ormai diventati vecchi senza mai rivedere nulla e pur sapendo che nel mucchio ci siamo. Parliamo anche di un libro da fare assieme per un sacco di motivi e stabiliamo perfino che lo stamperemo presto, appena dopo qualcosa che ciascuno di noi ha di più urgente da fare. Così il momento si mantiene costantemente distante nel nostro domani e ci illude che abbiamo futuro da vendere! Ieri, e siamo alla fine del 2011, l’ho trovato in Posta e abbiamo fatto la solita manfrina senza successo; qualcosa non quadra più e il Bepi mi pare stia ormai viaggiando su più piani temporali e di memoria contemporaneamente; mi ha chiamato Luigi (che peraltro è uno dei miei nomi) e mi ha parlato assai bene di una performance di mio padre e di ‘zio’ Gino che sembrava aver visto di fresco.
Mi ha pure detto di non preoccuparmi che tutte le foto sono negli scatoloni, archiviate per anno; appena abbiamo un po’ di tempo le dobbiamo riguardare. Confidiamo nei figli.


- Sta per Orca che paca! evidenziando la dolorosa sorpresa di un così lungo tempo passato. ↩︎
- Don Ferdinando Tamis è stato uno dei più valenti studiosi di storia locale, e la sua bibliografia è assai lunga (cerca in www. http://www.sbn.it/opacsbn/opac/iccu/informazioni.jsp). Tra le opere significative la Storia dell’Agordino in 6 volumi edita Da Nuovi Sentieri, Belluno, 1978 [1 La comunita di Agordo dalle origini al dominio veneto / prefazione di Giovan Battista Pellegrini; 2: Vita religiosa ; 3-4-5 La comunità di Agordo sotto il dominio veneto; 6: Tempi nuovi] ↩︎
- La stessa che supportava sole e luna alle estremità di una lunga barra sulla quale correvano anche i cavi di alimentazione delle luci: la cosa che appariva eclatante al pubblico era che gli astri mantenevano il ‘piombo’ durante la circolazione e ciò si evidenziava soprattutto sulla luna fatta a spicchio, a quarto. La cosa era resa possibile perché il pezzo ruotava su un perno e le connessioni erano del tipo strisciante (a spazzola). ↩︎
- Giuseppe ‘Bepi’ Zanfron è nato a è nato a Villa di Villa, nel comune di Mel (BL), nel 1932 ed ha svolto il mestiere di fotografo, prima e quindi di fotoreporter dal 196, lavorando per il Corriere della Sera e per il Gazzettino. È stato poi corrispondente per il Nord Italia della Associated Press. Oltre che su giornali e riviste, sue immagini sono riportate in diversi libri con commenti di Autori locali come Giuseppe Sorge, Michelangelo Corazza, Sergio Sommacal, Fiorello Zangrando e così via. Testo di grande successo è stato Vajont: 9 ottobre 1963, cronaca di una catastrofe, Cortina d’Ampezzo, 1988. Di recente è uscito l’altro volume Novembre 1966, l’alluvione: Belluno, Feltre, Alpago, Longarone, Zoldo, Cadore, Comelico, Agordo, Val Cordevole, Val Biois, Val Fiorentina, Valle del Mis, Cortina d’Ampezzo, 2006.
L’Ordine regionale dei Giornalisti del Veneto gli ha conferito il ‘Premio alla carriera 2004’.
Nella stessa occasione l’Ordine ha voluto ricordare anche la giornalista che più di tutte rappresenta l’impegno della categoria nel raccontare la tragedia della popolazione del Vajont: Tina Merlin. La Tina, nata a Trichiana (Belluno) il 19 agosto 1926 è stata staffetta partigiana e scrittrice. Come corrispondente dell’Unità ha raccontato con onestà e coraggio quanto stava avvenendo sulla diga e nei dintorni prima e dopo la catastrofe, venendo anche pesantemente accusata e denunciata (poi assolta). Nel suo libro “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe” (1983, La Pietra e 1993 Il Cardo) racconta e documenta con precisione come si è arrivati al disastro. Nel 1970 si trasferisce alla redazione dell’Unità a Milano e nel 1975, a Venezia, dirige le pagine regionali del quotidiano. Muore il 22 dicembre 1991. Al figlio, il collega e amico Toni Sirena, e all’Associazione culturale “Tina Merlin” l’Ordine ha consegnato una targa in memoria. ↩︎
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