Se tu fossi uno scalatore, e il tuo unico scopo fosse quello di essere il primo a toccare il cielo, salendo sulla vetta dell’Everest; se avessi già tentato due volte e al terzo tentativo scomparissi nel nulla, inghiottito dal ghiaccio e dal vento, lasciando solo domande dietro di te. Nessuno saprebbe più nulla. Solo la montagna, muta e immobile, potrebbe dire al mondo se ce l’hai fatta davvero.

Ecco, questa è la storia di George Mallory e Andrew Irvine, e del mistero che da un secolo respira tra le nevi dell’Himalaya. L’8 giugno 1924 il cielo sopra la cresta nord-est dell’Everest si fece lattiginoso, poi denso come un sipario. Da lontano, il geologo Noel Odell intravide due piccole figure, forse loro, salire con ritmo costante verso la sommità. Era mezzogiorno e cinquanta. Li vide superare una barriera di roccia e poi svanire nella nebbia. Da quel momento, silenzio.


Mallory, l’elegante alpinista e Irvine, il giovane ingegnere capace di rimettere in sesto una bombola d’ossigeno con un coltellino, formarono una cordata che teneva insieme desiderio e calcolo. Erano saliti da campo VI, oltre gli 8.000 metri, verso una linea di cresta di cui nessuno sapeva nulla. Eppure Mallory era un esperto, già nel 1922 aveva superato per primo la quota simbolica degli 8.000.
Quella mattina, però, il tempo li tradì. Oppure no? L’unica cosa certa è che quella mattina, per loro, fu l’ultima. Settantacinque anni dopo, nel 1999, la montagna restituì il corpo di George Mallory, scoperto da Conrad Anker a 8.150 metri, sul versante nord. La pelle conservata dal gelo, la corda ancora legata al busto, una lacerazione profonda come un taglio del destino. Le mani rivolte verso l’alto, il viso contro la neve, gli occhiali trovati nella tasca: segno che era ormai sera quando cadde. Stava scendendo. Dunque, era arrivato in cima? Mancava un oggetto, anzi due. La fotografia della moglie, che Mallory aveva promesso di lasciare sulla vetta, e la piccola macchina fotografica Kodak Vest Pocket che Irvine portava con sé. Nessuna delle due è mai stata ritrovata.

Nel 1933 venne scoperta una piccozza nei pressi della cresta sommitale, forse di Irvine. Negli anni ’60 e ’70, alcuni alpinisti cinesi affermarono di aver trovato un corpo inglese vicino alla vetta. Nel 2024, un secolo dopo la scomparsa, una nuova spedizione ha riportato alla luce uno scarpone di cuoio e tela, quasi intatto nel ghiaccio: apparteneva, con ogni probabilità, ad Andrew Irvine.
Ogni ritrovamento riaccende la speranza, e insieme la domanda: la macchina fotografica è ancora là, da qualche parte, prigioniera del ghiaccio?
E se un giorno venisse trovata, le immagini al suo interno racconterebbero la verità o aggiungerebbero solo un nuovo strato di nebbia? Reinhold Messner, uno dei più grandi alpinisti viventi, ha scritto che probabilmente non ce l’hanno fatta.
Eppure il fascino di questa storia non sta nella certezza, ma nel dubbio. Nella possibilità che per una volta la cima resti invisibile, che la fotografia mancante sia proprio quella che ci obbliga a immaginare. Perché la fotografia, qui, non è prova ma assenza: è un’immagine che non esiste, e proprio per questo continua a parlarci. Forse Mallory non ha mai lasciato la foto di sua moglie sulla vetta. Forse non c’è mai arrivato. Ma forse l’ha lasciata lo stesso, in un altro modo: nell’idea che ogni uomo, salendo, cerca un volto da portare più in alto.


L’Everest, in fondo, è anche questo: una montagna che trattiene i suoi segreti. Che non concede tutto, che non risponde.
Perché alcune domande, come alcune fotografie, devono restare sospese, per ricordarci che il mistero è parte del paesaggio.
E allora, in questa notte di Ognissanti, lasciamo che la neve faccia il suo lavoro: custodire, non svelare.
Non per aggiungere rumore, ma per ascoltare meglio.
“Why do you want to climb Mt. Everest, sir?”
“Because it’s there.” — George Leigh Mallory
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