Risulta che Gesù, nelle prime righe del discorso missionario lucano, che ascolteremo domani, inviò 72 discepoli. Settantadue, infatti, era il numero delle nazioni del mondo secondo quello che si credeva allora. Possono quindi essere al servizio della messe di Dio tutte le persone che si fidano di Dio e aiutano il mondo a far fruttare il bene che già c’è, ed è in abbondanza. Il nostro vescovo Renato ne può inviare una sessantina, il numero dei presbiteri occupati nelle nostre parrocchie. Questi numeri non aiutano la psicologia… – la media età del nostro presbiterio fa pensare… – ma trascurano ciò che conta: l’opera di Dio.
Mentre tutti se ne stanno chini a suonare malinconiche nenie sul mondo che soffre, sulla gioventù che si lascia andare, sulla speranza che sembra marcire sotto i contraccolpi della disperazione, c’è il Signore che canta lodi ad un mondo di bontà: «la messe è molta!». Basterebbe questo per mostrare quanto è lungi dalla sua bellezza un certo cristianesimo: quello dei cristiani piagnucoloni, dei vescovi che lamentano scarsità di vocazioni, della gente che inneggia alla fine del mondo. Tutta gente, costoro, che ha sempre puntato l’accento sul seguito della frase: «gli operai sono pochi».
Paradossalmente e provvidenzialmente – sottolinea il vescovo Renato – siamo tornati alle origini, benché per numero di presbiteri attivi non sia più possibile garantire la presenza di un parroco solo per ogni parrocchia. Nelle comunità cristiane delle origini l’annuncio non era atteggiamento carismatico di qualche guru, ma dimensione di comunità che si costruisce, che fatica nello stare insieme. Se alle origini Gesù inviò a due a due gli apostoli, così oggi ai nostri preti è chiesta sincera collaborazione, distribuzione di incarichi, responsabilità e capacità di coinvolgimento di laici. I discepoli sono mandati a due a due, precedendo il Signore, non devono convertire nessuno: è Dio che converte, è lui che abita i cuori. A noi, a tutti i battezzati, il compito di preparargli la strada.
Gesù si era accorto che dodici – i primi Dodici della storia – non bastavano: ne servivano settantadue. Forse già a quel tempo il bene era così sovrabbondante che servivano tanti occhi per scovarlo, tante mani per raccoglierlo, tante vite per testimoniarlo. È incredibile quello che dovranno fare, dovranno essere voce della sua Voce, annuncio di un futuro che è già presente, messaggeri di una parola che è benedizione: «È vicino a voi il regno di Dio!». Macché lamentarsi, brontolare, tenere il broncio sul viso: dovranno dire a tutti che l’Eterno è così vicino a loro da fare attenzione che non ci passino accanto senza accorgersene, dovranno mostrare al mondo come l’Eterno si giochi nel tempo di quaggiù, terranno l’arduo compito di predisporre i cuori al passaggio dell’Amico di Nazareth. E lo faranno da disarmati, senza nulla da perdere ma il Tutto da giocarsi: niente sandali, niente bisaccia, niente sacca addosso, solo la sua Parola. Certo che ci sono i lupi e Cristo lo sa: ma Lui sa pure che, anche qualora fossero in numero maggiore, nulla potranno contro la mansuetudine degli agnelli. E nulla riuscirà loro contro quelli che, alzati di buon mattino, scorgeranno nel mondo una sovrabbondanza di bene che metterà loro le ali al cuore. E ci chiede di pregare: non per convincere Dio a mandare operai, ma per convincere noi discepoli a diventare finalmente evangelizzatori!
Il vangelo questa domenica è una riserva inesauribile di ottimismo, di sguardo ammantato di bellezza, di serenità del cuore. Il bene c’è in abbondanza – «la messe è molta» –, a mancare sono uomini e donne che lo sappiano vedere, che lo custodiscano, che lo sparpaglino negli occhi altrui. Mancano dei folli che su un mondo disperato aprano degli squarci di luce.
Giulio Antoniol
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