Capita di trovarci a chiedere con insistenza qualcosa a Dio: una grazia, un aiuto, un favore, un sostegno nei momenti di difficoltà. Ci sta, il fatto di essere insistenti con Dio: è anche sinonimo di fiducia in lui, nella stragrande maggioranza dei casi, e in fondo non è che stiamo chiedendo chissà cosa. Noi siamo limitati, poveri, mortali, incapaci e indifesi, di fronte agli attacchi della vita: e allora, se non ci dà retta lui, chi ci dà retta? Quindi, se notiamo un certo silenzio da parte sua, non dobbiamo aver paura a farci avanti esigendo ciò che ci spetta. In fondo, assumiamo il medesimo atteggiamento della vedova del Vangelo, che insiste presso il giudice irriguardoso perché le faccia giustizia, secondo quanto le spetta per diritto. Per inquadrare correttamente la parabola non vanno dimenticate due cose riguardanti l’ambiente giudaico.
Innanzitutto, la vedova in questione non sta chiedendo favori particolari al giudice, sta solo reclamando il diritto di essere difesa, perché nessun altro lo fa per lei. E qui entra in campo la seconda figura, quella del giudice che non può essere imparziale di fronte alla legge, perché la legge di Dio è parziale, fa preferenze: difende sempre i poveri e gli oppressi. Per la mentalità biblico-giudaica, un giudice che «non teme Dio», e che nemmeno per gli uomini «ha riguardo» è totalmente inconcepibile. È un giudice ingiusto, anche se imparziale di fronte alla legge.
La vedova del Vangelo arriva a essere talmente insistente con il giudice che questi si sente minacciato fisicamente! Sì, perché questo è il significato originario del termine greco che traduce la frase «perché non venga continuamente a importunarmi»: la preoccupazione del giudice era forse dovuta al fatto che si sentiva minacciato fisicamente da chi avrebbe potuto prendere le difese della vedova, cosa che probabilmente non era così infrequente, ma che soprattutto avrebbe causato un crollo della sua reputazione professionale. E così, per pura convenienza, fa giustizia alla vedova oppressa e sfruttata adottando gli stessi criteri di Dio; il quale, invece, non ha bisogno che l’umanità giunga a minacciarlo perché egli eserciti la giustizia, perché «egli fa giustizia prontamente ai suoi eletti che gridano giorno e notte a lui».
Il problema, allora, non è il silenzio di Dio di fronte alle ingiustizie, ma il nostro silenzio, il nostro disinteresse, che non denota altro se non una mancanza di fede in un Dio che può veramente ribaltare le sorti del mondo, se ci si affida a lui. Un giudice irriguardoso riesce a ribaltare la sorte di una povera vedova condannata all’ingiustizia per via della sua insistente e quasi minacciosa preghiera, volete che Dio non sappia ascoltare il grido e l’anelo dell’umanità? Il problema è che l’umanità, oggi più che allora, denota di non avere più la minima dose di fede in un Dio che può veramente instaurare un regno di giustizia, se l’umanità gli dimostra di crederci veramente pure lei.
Se l’umanità dimostrasse di credere veramente in un mondo più giusto e più solidale, farebbe di tutto per ottenere da Dio la forza necessaria per cambiare il mondo; se l’umanità dimostrasse di credere in un Dio giusto e difensore dei poveri, non si farebbe nessun riguardo a pregarlo, a implorarlo giorno e notte, a chiedere a lui di indicargli la via giusta perché il suo Regno di giustizia si instauri nel mondo! Se l’umanità avesse fede, e la dimostrasse, e la coltivasse, invece di implorarla da Dio come fosse un distributore automatico di grazie (non dimentichiamoci: «Aumenta la nostra fede!», è il grido di richiesta dei discepoli all’inizio di questa dottrina lucana sulla fede), allora l’unica violenza che userebbe per ottenere giustizia, l’unica arma per far cambiare idea chi non ha riguardi per il povero sarebbe quella della preghiera, della semplice preghiera di abbandono e di fiducia in Dio.
Giulio Antoniol
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