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venerdì 5 Dicembre 2025,

Gentilezza? Dillo con una panchina. I “Sata” nepalesi

Un'architettura, nata dal basso, che testimonia come la qualità urbana possa coincidere con la qualità delle relazioni. Ne parliamo con Lila Bahadur Shahi, nepalese, residente a Kathmandu

La città contemporanea sta attraversando un profondo cambio di paradigma: dal principio della crescita quantitativa a quello della valorizzazione qualitativa dell’esistente. In questo nuovo orientamento si afferma il concetto di architettura gentile, intesa come pratica spaziale capace di promuovere inclusione, relazione e cura. Come osserva Jan Gehl in Cities for People (2010), la città centrata sulla persona restituisce valore a spazi minimi ma socialmente generativi, in cui la bellezza non è data dalla forma, bensì dalla qualità dell’esperienza umana. L’architettura gentile non aggiunge, ma rigenera: ridisegna lo spazio esistente trasformandolo in un dispositivo di coesione sociale e di benessere diffuso.

In questa prospettiva, può essere interpretata come un approccio progettuale che mette al centro la relazione tra persone e spazio, promuovendo forme di inclusione, partecipazione e cura condivisa dei luoghi. Si fonda sull’idea che lo spazio pubblico non sia soltanto un bene materiale, ma un bene relazionale, la cui qualità dipende dalle interazioni che riesce a generare e dal capitale sociale che contribuisce a costruire. All’estremo opposto si colloca l’architettura ostile – o defensive design – che concepisce la progettazione non come occasione di convivenza, ma come dispositivo di controllo ed esclusione.

Emblematico è il caso della Camden Bench, introdotta nel 2012 a Londra dal London Borough of Camden e progettata da Factory Furniture. La seduta, dalle superfici inclinate e prive di spigoli, è concepita per impedire il riposo, l’utilizzo da parte degli skateboarder e la sosta prolungata. Come riportato da The Guardian (Bramley, 2014), è stata definita “the pinnacle of hostile architecture”, simbolo di una città che controlla invece di accogliere.

(Image generated with AI support)

In contrapposizione a questa prospettiva, il Nepal offre un modello spontaneo e opposto di architettura gentile. Lungo le strade e nei pressi dei templi si trovano le Sata (सतः। Sata in lingua nepalese), piccole strutture in pietra o legno, coperte e aperte sui lati, tipiche della cultura Newar della Valle di Kathmandu. Concepite per accogliere chi viaggia, riposa o desidera incontrarsi, queste “panchine coperte” rappresentano una forma di welfare comunitario che unisce funzionalità, spiritualità e coesione sociale, intrecciando architettura e religione buddhista o induista in una relazione di reciproco riconoscimento e accoglienza.

Come emerge dall’intervista, realizzata in lingua italiana, a Lila Bahadur Shahi, nepalese, studioso delle tradizioni locali e cultore della lingua e della cultura italiana — che si ringrazia per la disponibilità — e residente a Kathmandu, i sata non sono solo elementi architettonici materiali, ma luoghi simbolici in cui si manifesta la gentilezza territoriale: una disposizione collettiva a condividere lo spazio e a riconoscere l’altro. Questa architettura nata dal basso testimonia come la qualità urbana possa coincidere con la qualità delle relazioni, e come la gentilezza — più che l’efficienza — rappresenti oggi una dimensione chiave dell’attrattività territoriale e della rigenerazione dei luoghi.

Cosa rappresentano i “Sata” nella cultura nepalese e perché sono così diffusi?

I “Sata” si collocano all’interno del paesaggio simbolico e architettonico del Nepal come la forma più semplice e, al tempo stesso, più profondamente sociale tra le architetture tradizionali. Accanto alle tre grandi espressioni del sacro — la pagoda, la śikhara e lo stūpa — essi incarnano la dimensione orizzontale della vita quotidiana, quella che unisce le persone e dà concretezza ai valori spirituali.

La pagoda, antichissima e nata proprio in Nepal, rappresenta la dimora degli dèi e la connessione tra terra e cielo; la śikhara, con il suo slancio verticale, evoca la ricerca dell’elevazione interiore; mentre lo stūpa racchiude l’essenza dell’insegnamento buddhista, simbolo della mente illuminata e della pace. In questo sistema di segni, il “Sata” svolge un ruolo complementare: è l’architettura della relazione, dove il divino si traduce in azione umana e la spiritualità si fa esperienza comunitaria.

Costruito su una piattaforma rialzata e sostenuto da quattro colonne con un tetto, il “Sata” è un luogo aperto, accessibile e gratuito, collocato lungo le strade, davanti ai templi o nelle piazze dei villaggi. Serve per riposare, incontrarsi, condividere, proteggersi dal sole o dalla pioggia, ma anche per preparare le feste o accogliere i viandanti. Non è un monumento, ma una micro-infrastruttura sociale: un piccolo gesto architettonico che esprime una grande idea di comunità.

Chi costruisce un “Sata” compie un atto di dono pubblico, spesso in memoria dei genitori o come merito spirituale. Così, accanto alle architetture che guardano al cielo, i “Sata” ricordano che la sacralità dello spazio può esistere anche sulla terra, nel vivere insieme, nel prendersi cura e nel riconoscersi parte di un medesimo mondo.

I “Sata” presenti a Bhaktapur si trovano anche in altre aree del Nepal o in Paesi vicini?

Sì, i “Sata” di Bhaktapur rappresentano alcuni degli esempi più antichi e meglio conservati, e sono particolarmente numerosi perché la città, dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, ospita un numero eccezionale di templi, corti e spazi pubblici. Dove ci sono templi importanti, ci sono sempre anche sata, costruiti per accogliere i fedeli, offrire riparo ai viandanti e favorire la vita collettiva. Bhaktapur, con la sua rete fitta di luoghi sacri e di incontro, è quindi una delle città in cui questa tradizione è più visibile e radicata. Strutture simili sono diffuse in tutta la Valle di Kathmandu, in particolare a Patan/Lalitpur e nella capitale, dove è celebre il Sorakhutte Pati, riconoscibile per la sua struttura a sedici colonne.

Fuori dai principali centri urbani, i “Sata” continuano a essere costruiti e utilizzati nei villaggi rurali e lungo i percorsi di pellegrinaggio, adattandosi ai materiali moderni ma conservando la loro funzione di accoglienza e riposo. Forme architettoniche affini esistono anche in alcune regioni confinanti dell’area himalayana — come nel nord dell’India e in parte del Bhutan — ma in Nepal la tradizione è più radicata e sistematica.

Queste strutture presentano legami con le tradizioni religiose locali?

Sì, esistono connessioni profonde tra i “Sata” e le tradizioni religiose locali, che in Nepal si intrecciano tra induismo e buddhismo in una continuità di pratiche e simboli. In molte aree del Paese queste architetture sorgono accanto a templi, stūpa o luoghi di culto, assumendo il ruolo di spazi di passaggio, meditazione e incontro. Il “Sata” può essere considerato un “luogo di mezzo”: non propriamente sacro, ma in dialogo costante con il sacro. È lo spazio dell’attesa e dell’accoglienza, dove la sosta diventa un gesto rituale, un modo per condividere tempo, silenzio e ospitalità.

Qual è il significato educativo e sociale di questi spazi?
Il “Sata” è una piccola scuola di convivenza. È il luogo dove le persone si siedono insieme, parlano, osservano e imparano a stare in relazione: uno spazio di apprendimento informale in cui si trasmettono regole, valori e saperi della vita comunitaria. Qui i bambini apprendono il rispetto e la collaborazione osservando gli adulti, gli adulti si confrontano su decisioni e notizie della vita quotidiana, e gli anziani custodiscono e condividono la memoria collettiva. È uno spazio dove il vivere insieme diventa pratica quotidiana, e la socialità spontanea si trasforma in educazione civica.

La semplicità del “Sata” ne rafforza il valore educativo: è un luogo aperto, accessibile e non sorvegliato, dove la responsabilità nasce dal senso di appartenenza, non dal controllo. A differenza di molte strutture urbane contemporanee, non serve vigilanza per mantenerlo in ordine: la cura è condivisa, e proprio questa condivisione genera rispetto e senso del bene comune. In questo modo il pāṭī diventa una palestra silenziosa di cittadinanza, dove la convivenza si impara attraverso i gesti quotidiani.

Come possono i sata ispirare oggi le nostre città?
In un tempo in cui la modernizzazione urbana tende a ridurre gli spazi gratuiti e a escludere le soste “non produttive”, i sata ricordano che la qualità dello spazio pubblico nasce dalla relazione. Non servono grandi opere per creare comunità: basta un luogo in cui potersi fermare, riposare, incontrare e guardarsi negli occhi. Nei “Sata”, l’ospitalità diventa architettura e la sosta un gesto di umanità condivisa. Queste strutture, nate per offrire riparo gratuito ai viandanti e a chi non aveva nulla, rappresentano una forma antica di solidarietà civica. In Nepal chiunque può sostare in un “Sata”, anche per la notte: nessuno viene escluso. In questo senso, i “Sata” sono spazi di accoglienza aperti e inclusivi, dove la dignità delle persone è più importante delle regole formali.

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